L’ABBAZIA DEI CANOSSA ED IL SEGRETO DELL’ULTIMA CENA

 

L’Abbazia di Polirone

Sulle terre di un’isola formatasi fra il fiume Po ed un suo ramo secondario, il Lirone, donate ai monaci benedettini da Tedaldo di Canossa, primo Signore di Mantova e Vicario dell’Imperatore Ottone II, fu fondata nel 1007 dagli stessi Benedettini un’abbazia.

Accanto ad essa, successivamente (1016), Bonifacio di Canossa edificò una basilica poiché l’abbazia cominciò ad essere meta di pellegrinaggi a seguito dei miracoli compiuti dal corpo di Simone, pellegrino armeno morto qui in odore di santità. La basilica venne intitolata al Santo ed in essa furono portate le sue spoglie.

Nel 1077, Matilde di Canossa (figlia di Bonifacio) ottenne per l’Abbazia di Polirone la protezione apostolica di Papa Gregorio VII, che la sottopose alla regola del celebre monastero borgognone di Cluny.

L’abbazia divenne nel tempo un fortissimo centro di potere e di cultura, oltre ad essere meta spirituale di pellegrini, tanto da meritarsi il soprannome di “Cassino del Nord” e nei secoli le famiglie regnanti su Mantova, prima i Canossa poi i Gonzaga, ebbero per essa sempre un occhio di riguardo.

Alcuni storici sostengono che la fortuna dei Gonzaga iniziò proprio da qui, quando il monastero diede loro in concessione dei terreni.

Il Refettorio e l’Ultima Cena

La nostra visita al complesso abbaziale comincia con il Refettorio posto sul lato sinistro della Basilica e all’inizio del grande chiostro. Edificato nel 1478 è costituito da un unico ambiente di notevole dimensioni (11 metri di larghezza per 50 metri di lunghezza), a 4 campate e volte a crociera.

Entrando non si può fare a meno di notare sulla parete di fondo (posta a Ovest) l’affresco che la ricopre quasi interamente (con un’estensione di circa 100 metri quadrati) opera di Antonio Allegri, detto il Correggio, che fa da “palcoscenico” ad una copia dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci  realizzata dal frate domenicano Gerolamo Bonsignori (attualmente sulla parete è posta una copia fotografica dell’opera, pochè l’originale si trova nel museo civico di Badia Polesine – Rovigo – arrivatovi dopo diverse traversie nel XIX secolo).

Committente di entrambe le opere fu un personaggio veramente particolare: Gregorio Cortese, cellario del monastero, che commissionò i lavori fra il 1510 ed il 1514 e che fu abate dell’Abbazia dal 1538 al 1542. Umanista, docente di grammatica, filosofia e teologia, fu un uomo di grande cultura e fautore del restauro di buona parte del monastero compresa la chiesa, per la quale chiamerà un grande artista del tempo: Giulio Romano. Ufficialmente fu uno dei maggiori esponenti della corrente dell’Evangelismo e della riforma cattolica, ma egli intrattenne rapporti anche con alcuni amici di vecchia data che erano molto vicini a movimenti eretici. Ciò non gl’impedì di chiudere la “carriera ecclesiastica” con la porpora cardinalizia.

Esaminando l’opera del Bonsignori si può notare come egli riproduce i componenti del banchetto (il Cristo al centro della scena ed alla sua destra Giovanni, se effettivamente di Giovanni si tratta, poiché se lo si osserva con attenzione non è difficile leggervi i tratti di una donna con i capelli rossi: la Maddalena ? Poi vi sono gli altri 11 apostoli: Bartolomeo, Giacomo Minore, Andrea, Pietro, Giuda, Giacomo Maggiore, Tommaso, Filippo, Matteo, Taddeo e Simone) secondo lo schema dettato da Leonardo nella sua opera.

L’autore del dipinto ha però voluto differenziare la sua opera da quella leonardesca in alcuni particolari. Lo scenario in cui si svolge la scena, ad esempio. La stanza del banchetto, infatti, nel dipinto originale ha porte e finestre, mentre nella copia posta a S. Benedetto l’ambiente è costituito da un atrio con colonnati. Anche il pavimento dell’ambiente in cui si svolge la scena è differente. Nell’originale è un pavimento semplice di colore uniforme mentre nella copia la pavimentazione è molto più raffinata, policroma e con disegni a greca-labirinto.

Un attento esame dei due dipinti, inoltre, ci consente di notare che alcuni apostoli sono profondamente diversi come se il Bonsignori, volutamente, volesse differenziare alcuni personaggi dall’originale. In particolare la “diversità” la si può riscontrare nelle figure di Andrea e Filippo. Perché non cercare di copiare tutti i personaggi dell’affresco posto a S. Maria delle Grazie a Milano e rappresentare invece alcuni apostoli in modo completamente diverso?

Molto interessante il commento del Vasari sull’opera, che giudica di livello tanto da esprimere la seguente opinione: “…nel medesimo luogo è di mano d’un frate Girolamo…un quadro a olio ritratto il bellissimo Cenacolo che fece in Milano a Santa Maria delle Grazie Lionardo da Vinci; ritratto, dico, tanto bene che io ne stupii…”

Sembra inoltre che presso la Pinacoteca di Monaco, arrivatovi per vie non ancora chiare, esista una copia di più modeste dimensioni del dipinto posto nell’Abbazia di Polirone, che pur se attribuito ufficialmente ad anonimo, alcuni esperti sostengono dell’autore Nicolas Poussin, lo stesso pittore che conosciamo molto bene per il famoso dipinto “i pastori d’Arcadia” che attualmente si trova al Louvre di Parigi.

Ma un quesito rimane irrisolto. Il Cortese commissionò la copia dell’Ultima Cena, nonostante le polemiche che avevano circondato la sua realizzazione da parte di Leonardo. Forse egli conosceva il messaggio ermetico in essa racchiuso e voleva riprodurlo a Polirone ?

Tutto attorno al dipinto del Bonsignori, si svolge l’affresco dell’Allegri, pittore che aveva risentito allo stesso modo di influenze leonardesche.

Nell’affresco sono rappresentati, all’interno di un tempio cinquecentesco, alcuni personaggi dell’Antico Testamento e due Sibille. In particolare partendo dal basso a sinistra e ruotando in senso orario troviamo Abramo che sta per sacrificare Isacco, l’offerta di Melchisedek e poi David che ha sopra il capo un cartiglio nel quale sono scritte le seguenti parole: “Eloim, Eloe, Eloai, Ola, Elion, Sabaoth, Adonai, Iah, Sadai, Svr, Abir, Iesua, Iesuoth, Mestah” (la cui traduzione dall’ebraico dovrebbe essere: “Dio, Iddio, Dio di…, Dio Mio, Maestà Divina, Altissimo, Dio degli eserciti, Signore, Dio, Creatore, Roccia, Forte, Salvatore, mia Salvezza”). Sopra David vi è una Sibilla con un cartiglio in cui sta scritto: “Verrà un Unto, figlio della giovane, dal popolo; grande è il suo nome: Emmanuele”. Potrebbe trattarsi della Sibilla Cumana, che viene raffigurata anziana decrepita (se si osserva la figura, rispetto all’altra Sibilla rappresentata, il volto sembra più scuro e segnato), alla quale Virgilio nelle sue Bucoliche  fa annunciare l’avvento del Cristianesimo.

Gli altri personaggi a seguire sono Mosè sul cui capo è posta la scritta: “così lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano. Lo mangerete in fretta. E’ la Pasqua del Signore”. Al di sopra della figura di Mosè è posta una seconda Sibilla (forse la Sibilla Tiburtina o Albunea, la quale aveva predetto all’Imperatore Augusto l’avvento del Cristianesimo oppure la Sibilla Eritrea, la più famosa di tutte le Sibille, che come le altre aveva previsto l’arrivo di Cristo) che nella mano sinistra regge un cartiglio in cui sta scritto: “senza padre e senza madre, mortale secondo carne, uomo e Dio”.

Infine in basso a destra troviamo la rappresentazione di Isaia.

La Chiesa

 

Forse ci vorrebbe una pubblicazione a parte  per descrivere con dovizia i particolari della chiesa appartenente al complesso monastico, ma vale la pena sostare in alcuni punti di grande interesse e che rendono la chiesa “particolare” ai nostri occhi.

La prima sosta da effettuarsi all’interno è la prima cappella a sinistra, quella che in tutte le chiese è generalmente considerata la cappella più importante. La nostra infatti è dedicata a S. Simeone, il santo protettore dell’Abbazia. Quello che ci colpisce non è tanto la statua di S. Simeone oppure le sue reliquie, quanto che all’altro lato della cappella, in abbinamento, è posta la statua di Maria Maddalena (non si riesce a comprendere il nesso fra i due, forse entrambi finirono la loro vita da eremiti ?). Ma ancora più strana è la pala dell’altare interno, sempre dipinta da quel frate Gerolamo Bonsignori che ha dipinto l’Ultima Cena nel Refettorio e sempre su commissione di frate Gregorio Cortese. Nella pala è rappresentata la Fede, o almeno questa è l’interpretazione data del quadro. Certo il dipinto è molto bizzarro, viene rappresentata una donna avvolta in un mantello rosso e dal volto coperto da una nube, con l’indice della mano destra rivolto verso l’alto (gesto che troviamo in alcune rappresentazioni leonardesca) mentre con la destra sorregge un calice (il Graal?). Ma chi realmente è la donna rappresentata ? Il mantello rosso, l’indice puntato verso l’alto ed il calice potrebbero farci pensare che si tratti della Maddalena ? Ciò spiegherebbe la statua presente all’esterno della cappella.

All’interno dell’Abbazia troviamo diverse rappresentazioni della Maddalena; nella quinta cappella laterale della navata sinistra, ad esempio, è rappresentata in un tondo in alto; oppure nella sala consiliare si può scorgere, fra i personaggi di un affresco di epoca mantegnesca raffigurante la scena della Crocefissione, Maria di Magdala ai piedi della Croce.

Proseguendo per la navata sinistra, in fondo, dal transetto di sinistra si può accedere all’Oratorio di S. Maria, databile  XII secolo d.C., splendido nella sua semplicità e nel quale sono ancora visibili i mirabili mosaici del pavimento, in stile romanico – cassinese, rappresentanti una scena estremamente interessante: un soldato (Longino ?) che trafigge con la sua lancia il grifone (Cristo?), da una parte, mentre dall’altra troviamo l’unicorno (sempre il Cristo ?) che fronteggia un mostro alto con artigli e coda (un drago ?).

In questa cappella venne sepolta, subito dopo la sua morte, Matilde di Canossa, avvenuta nelle vicinanze dell’Abbazia, a Bondanazzo, fra il 24 ed il 25 luglio 1115, come la stessa aveva espressamente richiesto. Nel pavimento mosaicato dell’oratorio vi è rappresentata una figura femminile che brandisce la spada, la tradizione vuole sia la Grancontessa (forse l’unica immagine coeva esistente) con le 4 Virtù cardinali a lei attribuite (La Fortezza, la Temperanza, la Giustizia e la Prudenza).

Dal transetto destro invece si può accedere all’ambiente dove si trova la tomba, vuota, della Grancontessa Matilde. Il sarcofago è in alabastro sorretto da 4 leoni. Dal 1633 i resti della nobildonna si trovano in S. Pietro a Roma in un sepolcro scolpito dal Bernini, sovrastato dalla sua statua che la rappresenta con lo scettro ed il triregno nelle mani e sopra il capo un melograno (il frutto che diventerà il suo emblema e  che troveremo riportato in parecchi ritratti di Matilde).

I legami fra Matilde di Canossa e l’Abbazia

 

Abbiamo detto che il monastero fu fondato dal nonno di Matilde, ma fu lei stessa a renderlo una delle abbazie, se non l’abbazia più potente del nord Italia, grazie alle copiose donazioni che essa fece in suo favore. Gli stessi Gonzaga, la dinastia che per 400 anni dominerà sul territorio mantovano e che dovette parte della sua fortuna ai rapporti con l’Abbazia, fu testimone delle donazioni matildiche.

I Canossa prima ed i Gonzaga poi, che antiche genealogie sostengono appartenere alla stessa stirpe di origine longobarda, furono grandi protettrici di questa abbazia.

Ma perché questi potentissimi casati tenevano così tanto al monastero di Polirone ?

 

Qualcuno sostiene che la cerca del Santo Graal a Mantova inizia proprio qui, dall’Abbazia di Polirone a S. Benedetto Po e forse l’abate Gregorio Cortese con le opere da lui fatte eseguire, in particolare l’Ultima Cena nel Refettorio ed il dipinto della Fede posto nella cappella di S. Simeone all’interno della chiesa, ci ha voluto fornire gli indizi per iniziare la ricerca.

 

Alberto Cavazzoli

 

Articolo pubblicato sul portale EdicolaWeb.net